Negli ultimi tempi mi è capitato di leggere e recensire i libri di due autori russi della cosiddetta “emigrazione” (entrambi si trovavano a Parigi all’epoca della Rivoluzione). Fatta salva questa coincidenza biografica, si tratta di due scrittori molto diversi tra di loro, come dimostrano anche i testi di cui mi sono occupato. Li riproduco qui sotto, approfittandone per sottolineare come i volumi siano pubblicati da due case editrici come Castelvecchi e Meridiano Zero, che si stanno segnalando per le loro proposte molto interessanti e, non a caso, molto diverse tra loro.
Anche la tradizione cristiana d’Oriente ha il suo Francesco. È il principe serbo Sabba, che getta dalla torre del monastero in cui si è rifugiato la veste imperiale inviatagli dal padre. Una scena che non può non ricordare il celebre denudamento del santo di Assisi al cospetto del vescovo e, di nuovo, del padre che vorrebbe tenerlo legato ai beni terreni. La pia ribellione di Sabba è uno dei molti episodi che affiorano dalle pagine di Monte Athos, l’appassionato diario di viaggio nel quale, all’altezza del 1928, lo scrittore russo Boris Zaitsev rievocò il proprio pellegrinaggio nella capitale dell’ascetismo ortodosso. Da tempo assente dalle nostre liberie (l’ultima edizione risaliva alla metà degli anni Novanta) questo piccolo classico viene ora riproposto da Castelvecchi nella versione di Alessandro Falco, preceduta dall’ancora elegante prefazione di Rinaldo Küfferle, che negli anni Trenta fu tra i primi divulgatori dell’opera di Zaitsev nel nostro Paese. Subito dopo la Francia, del resto, l’Italia fu la nazione prediletta da questo autore che nel 1922, dopo aver ricoperto incarichi di responsabilità nella Russia rivoluzionaria, decise di stabilirsi in Occidente. Una scelta più spirituale che politica, come dimostrano alcuni racconti di La via di San Nicola, attraversati da una polemica denuncia dell’ateismo bolscevico. Nato nel 1881 a Orël e morto a Parigi nel 1972, Zaitsev divenne così una delle figure centrali nella cosiddetta letteratura dell’emigrazione, proponendosi nello stesso tempo come continuatore di una poetica che si richiamava all’imperturbabilità di Turgenev più che alle inquetudini di Cechov, in una visione complessiva del mistero dell’esistenza non estraneo alla riflessione teologica di Vladimir Solov’ëv.
Non stupisce che un intellettuale dalla simile formazione – traduttore per di più dell’Inferno dantesco in un’originale prosa ritmica – abbia sentito la necessità di visitare la repubblica monastica dell’Athos, in un percorso che lo stesso Zaitsev avvicina a quello in uso nella Chiesa cattolica, per la quale non è raro che i «secolari» decidano di farsi ospitare in convento, «come obbedendo a una chiamata di controllo». Nel caso dell’Athos, però, tutto è più solenne e complesso, e non soltanto perché dalla penisola è bandita la presenza delle donne. A esclusione della Vergine Maria – aggiunge subito Zaitsev –, la quale è fatta oggetto di un culto pressoché smaterializzato e privo ormai di ogni inganno della «bellezza»: una parola, osserva ancora lo scrittore, che «in russo arcaico significa “lusinga”, “seduzione”, in generale qualcosa di falso».
Eppure, nonostante tutto, l’Athos si presenta al visitatore come luogo di straordinaria, dostoevskiana e quindi salvifica bellezza. Nei paesaggi naturali, anzitutto, con «le chiare acque dell’arcipelago» che affascinano gli stessi monaci. E poi nelle storie strabilianti delle quali Zaitsev, nella sua veste di syngrapheus («scrittore», appunto, l’appellativo con cui gli accompagnatori lo presentano ai confratelli di lingua greca), si fa minuzioso cronista.
Può trattarsi di leggende del passato, come quella di san Pantaleone, il taumaturgo adolescente che ha come emblema il cucchiaio, o l’altra, complementare, di san Pietro, l’anacoreta centenario che nasconde la propria nudità sotto una barba enorme, proiezione senile della giovinezza solitamente attribuita ad Adamo. Con uguale frequenza, però, Zaitsev si fa narratore delle vite esemplari di quanti gli capita di incontrare nel suo ordinato vagabondaggio fra eremi e monasteri. Vecchi che indossano cilici colossali, penitenti solitari che si nutrono per tutto l’anno dei fichi, ormai guasti, raccolti durante l’estate, priori (o, meglio, egumeni ) dall’aspetto ieratico e bibliotecari posti a custodia di una sapienza millenaria. Su tutti Zaitsev posa uno sguardo che non ha nulla di importuno, essendo purificato in partenza dalle obiezioni di scetticismo che vengono a più riprese riferite alla mentalità «cinematografica» di un Occidente capace solo di curiosità e non più di meraviglia.
Il pellegrino sa di non essere chiamato a quel destino di spoliazione e isolamento, ma non si sottrae alla fedeltà che un’esistenza del genere gli imporrebbe. Per questo venera reliquie che hanno assunto il colore del miele selvatico (la perfetta consunzione della carne è, per i monaci dell’Athos, conferma della santità di vita del defunto). Per questo, quando si trova a essere testimone della disputa fra un venerabile eremita e il suo ingenuo ammiratore tedesco, non può fare a meno di restare scandalizzato dalle proposte del «dottore», che vorrebbe promuovere le ragioni del monachesimo ortodosso mediante le più moderne strategie pubblicitarie e, come se non bastasse, propone di «distruggere i bolscevichi con mezzi tecnici e chimici». A quel punto, registra sconsolato Zaitsev, «l’eremita tacque definitivamente».
(da «Avvenire», 5 gennaio 2013)
Il russo Il’ja Erenburg (1891-1967) fu scrittore dalle molte vite, tanto da attirare su di sé accuse ricorrenti, e in parte ingenerose, di trasformismo. La sua non fu comunque una parabola del tutto lineare: esordì come poeta negli sperimentali anni Dieci, abbracciò con successo i dettami del realismo socialista e concluse la carriera nel 1954 con Disgelo, un romanzo che – come spesso accade in questi casi – divenne suo malgrado simbolo di un’intera epoca. Al centro di un’opera tanto vasta e non priva di contraddizioni si staglia, simile a un oggetto misterioso, la concitata narrazione delle Straordinarie avventure di Julio Jurenito, un libro composto di getto nel 1921 in Belgio (Erenburg visse per molti anni fuori dai confini della patria) e pubblicato nello stesso anno a Berlino. Un classico dell’irrequietudine novecentesca, da tempo assente nelle nostre librerie e ora riproposto da Meridiano Zero nella bella traduzione di Caterina Ciccotti e con un’utile prefazione dello slavista Gian Piero Piretto.
Siamo, per intenderci, dalle parti del Maestro e Margherita , tant’è vero che il protagonista del libro di Erenburg è stato a più riprese considerato come un antesignano del tenebroso Woland, ovvero l’identità che, nel capolavoro di Bulgakov, Satana assume per tenere corte nella Mosca bolscevica. Ma se nel Maestro e Margherita prevale uno sguardo spirituale, quando non addirittura mistico, le peripezie di Julio Jurenito si pongono sotto il segno di un’ambiguità prestabilita, rispetto alla quale lo stesso autore cercò in seguito di reagire sostenendo di aver voluto comporre una satira pacifista e antimilitarista. Componente non difficile da riscontrare nel libro, che nondimeno appare percorso dalla volontà di prendersi gioco di ogni forma di potere costituito, con un metodico ricorso all’umorismo nero e allo sberleffo irriverente.
In ogni caso, se Woland è il diavolo, Julio Jurenito nega di esserlo. Il che, considerata l’astuzia del Tentatore, non suona affatto rassicurante. Messicano di nascita e rivoluzionario mancato, incontra l’ebreo Erenburg a Parigi, nei mesi che precedono la Prima guerra mondiale, e subito ne fa il primo dei suoi discepoli. Altri se ne aggiungono in breve, e ciascuno di loro è portatore di un determinato cliché razziale o nazionale: l’affarista americano e l’africano incontaminato, il russo visionario e il francese gaudente, l’organizzatore tedesco e il menefreghista italiano. Insieme, percorrono l’Europa squassata dal conflitto, approdando infine nella Russia dei soviet, sempre in ascolto della paradossale predicazione del Maestro, i cui piani comprendono, fra l’altro, la produzione di un’arma capace di sterminare popoli interi e una non meno spietata «soluzione finale» da riservare agli ebrei. Da qui la qualifica di “profetico” non di rado assegnata al romanzo, nel quale la macchinazione di Julio Jurenito prende le mosse dalla constatazione che, per l’uomo moderno, Dio non è ormai che «una specie di barattolo di unguento (chi l’ha ordinato e a chi? La ricetta si è persa da un pezzo…) sopra una mensola della stanza da bagno: non lo gettate via solo perché è là da tanto tempo che avete cessato di notarlo». Osservazione diabolica, d’accordo. Ma proprio per questo sarebbe imprudente sottovalutarla.
(da «Avvenire», 12 gennaio 2013)