In questi giorni a Roma, presso l’Istituto nazionale per la grafica, il fotografo Antonio Biasiucci espone in “Tre Terzi” gran parte della sua produzione degli ultimi trent’anni. Da non perdere, come ho cercato di argomentare martedì 22 gennaio su «Avvenire».
Un corpo che non si vede, perché la condizione della vittima sta appunto nel suo nascondersi allo sguardo del carnefice. E un corpo che si offre in ogni minimo dettaglio, fino a condensare nella quiete dell’occhio spalancato tutta la sapienza, e tutta la pazienza, su cui si regge la condizione dei viventi. Sono gli estremi del percorso testimoniato in
Tre Terzi , la mostra-installazione – attualmente in corso presso l’Istituto nazionale per la grafica di Palazzo Poli a Roma – in cui il fotografo Antonio Biasiucci ha voluto ricapitolare gli esiti di una ricerca ormai più che trentennale. Come scrive Goffredo Fofi nel bel catalogo Peliti (nel quale, non a caso, convivono felicemente le voci di scrittori, critici e antropologi quali Maurizio Braucci, Maria Francesca Bonetti, Stefano De Matteis e altri), Biasiucci è tra quanti, posti davanti al dilemma dello statuto proprio della fotografia, hanno scelto «la pratica di un rigore» che permette di «tirarsi fuori dal quadro» di una contemporaneità altrimenti soffocante. Nato nel 1961 a Dragoni, nel Casertano, Biasiucci si è stabilito a Napoli all’inizio degli anni Ottanta, in un clima di vivacità creativa dominato, nel caso specifico, dalla figura di Antonio Neiwiller, il compianto regista-drammaturgo la cui poetica ha lasciato un’impronta indelebile nella sua opera. Raccogliendo l’intuizione che fu già di Roland Barthes nella Camera chiara, l’artista campano ha subito sviluppato, in modo pressoché istintivo, la parentela sotterranea che lega la fotografia al teatro, indagando i misteri di una corporeità che, proprio per il suo essere intimamente abitata dall’umiltà della materia, non riesce a sottrarsi all’avventura di un sovrasenso spirituale. «Sacrificio», «tumulto» e «costellazioni» sono i movimenti di cui si compone la partitura di Tre Terzi , la cui sequenza d’apertura coincide con l’ormai classico progetto “Vapori”, indagine sul rito contadino dell’uccisione del maiale condotta scegliendo – e imponendo a chi osserva – il punto di vista della bestia uccisa. È questo il corpo che non si vede e che non può essere visto. Il corpo dilatato a misura dell’universo è invece quello, conclusivo, delle celebri “Vacche”, nel cui manto rugoso Biasiucci pare ritrovare la stessa sostanza magmatica incontrata sulle pendici dei vulcani da lui tanto frequentati. In mezzo è tutto un susseguirsi di ex voto e oggetti abbandonati, volti sospesi nel vuoto e forme di pane che assumono vastità planetaria, in un mistico trovarobato per cui ogni assenza rivela lo struggimento e la necessità di un’attesa.